Perduta una sera, sotto la luna di marzo
bianca come una cialda, batteva come il glutine
traslucido, come una Venere, una cera di latte
sospesa sui nostri passi lentissimi, a
scendere il crocicchio sotto le quattro parti
del Palatino.
« Padre, chi sei? O madre mattutina? » Spalanchi
le vie tritando il sale e il grano per metri
di mani, di piedi, di teste contate in parti, e
il sangue solo corra, scenda, s’arrontondi in
tromba di primavera e mormorii d’archi,
fiottando nei rigagnoli dell’argilla rossa:
colmava il San Giovanni, era uno specchio nero
dell’Isola Tiberina, a Roma.
Tu avevi una via. Si puntava come l’ariete
fra le ciglia con gola di narciso; verde liocorno
fra le ciglia. Spalancata dalla soglia
che la saggina rossa e oro spazza vorticosa,
ripete d’ora in ora le sue voci,
dà i balzi, rotola, rintocca.
Peggio che fango. Spazzato ogni teatro con
quattro assi perduti e contro il buio.
Discende dalla luna l’agnello che saltella
con il ciuffo molato, con il collo sgozzato.
C’era un odore di latte e di vento, quella
sera. Io non sapevo avanzare, fra l’arco di
Giano e il Velabro, con te.
Io non sapevo che verità e luogo
fosse allora. Ma la luna mi succhiava
dentro un fango bianco, un sangue d’astragalo
sibilava: « Ordine »: le quattro zampe
ficcate nel suolo, grondava ghiaccio
di cadavere e marmo maestoso.
Come la più grave delle bellezze,
la belva massiccia aveva oculi arcuati,
statici, selenii.
Così soli, eravamo. I rifiuti,
transenne. Sotto guizzavano le strade
laminate. Di là non più
asfodeli o lecci. I pini.
Nel sapore di ferro di quel seno sgusciato
di cielo, si agitava una matta fra i soffi dei
gatti di pelo rancio. Che tesoro gratti
su queste soglie grasse?
Dove ingabbierai gli uccelli, il sangue, le acque,
e ti farai moneta? Una battuta sfoglia,
o questa luna? Oh come soli,
come soli allora, tu e io.
Qui cominciava l’ordine.
Non era una candela esposta agli uragani.
Non era una battaglia per le onde.
Dalla cornucopia gonfia della terra,
infinite le lingue nei millenni,
rese pure dal taglio e dalla fiamma,
risalivano buie. Sentieri di grotte
nella memoria in trecce di mormorii,
gorgoglii di vero sotto la luna,
tornate ad ogni luna. Un’argilla
che oscilla come un orologio.
Io le sentivo. Ti guardavo, dicevo: « Perché
qui ci sono voci, troppe, e il silenzio.
è atroce? Questo gesso
che mi perfora il cuore, meraviglioso,
mi inchioda:
è un terrore? Io l’ho sognato.
Mutato; era un giardino quadrato
strappato da popoli dentro le onde.
Era verde, mutevole, nobile.
Qui è l’orrore del candido, la calce
dell’anima ».
Oh, quelle lingue annerite! Balbettano
come tamburi, battiti di terra.
E questa luna, che le attira e
le alimenta!
Lo sanno ora che il fuoco che le mosse
alla bestemmia e al canto, che le schizzò
dal ceppo,
va per il vento come la maree,
è una pelle d’aria,
è l’estasi più tarda della luna di marzo?
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