Madre mattutina, dalle porte
dei tamerici, nata dal tessuto
della pietra serena,
madre antica, ora remota, che mi appari
dalla finestra d’alba d’un treno
precoce
che corre sul mare, prima del risveglio
del sole, si alza appena il primo
taglio grigio dell’acqua, e non è ancora
luce, e come allora, ricordo,
mi custodivi il sonno, entravi
a guardarmi, sentivo dallo specchio
una luce, avevi dita di mandorle
e carminio, e ora, nel buio più alto
in cui sei, forse dischiudi altre porte,
sei custode di porti, mutata d’egida
come la vedetta prima, con gli occhi
di rapace; i piedi ti fremono
sul mare stellato.
Madre mattutina, da queste pozze
algide che fuggono, dove la terra
perduta pare donarci le stelle,
ricordi, sussurri ancora:
« inizia »,
e mi prendi sul fianco,
e spingi il mio piede:
« va’? »
Entravi così piano, occultatrice
delle tristezze, madre delle
carezze, mi portavi
il caffè e le vesti, spalancavi
la luce. Lontana, lontana,
madre di maggio del princìpi,
hai ancora la mia bocca
come la tua? Ho pensato
all’areola del rovo oltremarino
per l’amarezza, ti ho visto
architrave delle fiamme grigie,
mandorla del fuoco inconsumabile,
per il sostegno,
t’ho sentito
ombra dell’orizzonte
non ancora lacrima, per la speranza,
t’amavo
mola della rupe gravida
e non molata, per la gravezza.
Ma come un manto di sabbie nere
il tuo volto che il tempo ha denigrato
avvolge la mia anima
in una pelle d’aurora negra.
È il tempo, è il tempo
che l’ha fatto, che ha tolto l’oro
e che ci ha mascherato.
Un giorno come questo, velo mio,
dall’aurata fresca primavera
sul fondo della terra e delle tombe
mi fu covato il petto in nero,
covato il cuore, tintinnò
come un gabbiano incarcerato;
inarcavo le ciglia, ad archi e ad ali
battevo con il becco contro il sole.
Il cuore crucciato fu pugno che mi caccia
ancora sugli asfalti, ancora vedo
che mi guardavi, ansiosa.
E m’affacciavo
alle estati saline innamorate.
Nel nuoto azzurro delle isole,
nei gridi delle barche solitari, nelle
salite dei colli sbiancati di stoppie
esangui, salate, crude
di voli e di venti assolati,
era l’estate vorace, già divorata
di miele. E mai
sguscivo dal mare, ala della siepe
posata sui sonni, protettrice.
Eppure paresti aprire soltanto
dimore di piombo e di piume, per me.
Da quella sponda di perla e di viola
in cui la tua parola vibra,
pianta meravigliosa
non ancora risorta dall’onda
amara della memoria,
da quella bocca, d’onde allo specchio
mi parlo, con occhi arsi, e non mi vedo,
la prima onda della veste delle maree
ritorni, notturna aurora piegata
come da questo sfinestrato sguardo
in cui compare e scorre il mare
che ho perduto, in me.
Onorata di lacrime, e di canto
di un più radioso aprile, allora
davant ai pini e alle vertrate, alle quattro
dell’alba, acclamata da ricci di gole
di merli, e da fiori dischiusi, come
di rose, la mia gola anche salutava
un’aria candida e vermiglia.
Madre mattutina, all’ora bianca
come nube di pane, ti facevi
ghirlanda, eri una tela bianca, eri
come la Carna che all’ora dei fischi e
delle acque si appresta, si dà; eppure
dall’Adriatico che si dilama
come una tavola, da questa tolda oliata
che il senso e il desiderio vapora nei precordi,
mi si sfilava il cinto dove s’adorna
l’impazienza tenera, che l’iride recluso
dell’amore intimo fa suasivo
nell’illusione;
si levigava
su quella tela bianca; essa era la
superficie elisia e immobile del
liquido dell’anima, Carna, e senza
battenti d’onde, priva di frangenti, come la
Strige stigia che ti spezza il becco
nelle viscere, piomba
sullo scricciolo semi addormentato, tu
mi hai ucciso.
Madre mattutina, madre del focolare,
nutrice delle acque stigie,
coraggiosa,
anche in te era la Nemesi
che volava sulle acque altissime,
e fu coperta, e sgrondò
come un sole nuovo
l’uovo di giacinto
rosso
sull’obliquo albore del mare
trattenuto
dal tempo.
Ma su questo lido vedo
la bellezza bianca
della colomba, la
prima ala più vasta
che l’ha recata, il vivo
serpe sdipanare dal mare e dalle
piume bianche il suo smeraldo,
e non so, se come il
drago d’aria o l’ofide che sbocca
dalla sabbia algosa, lei vada
verso il sole o tramonti
alla terra, o guereggi,
in morte molle, senza speranza.
Anch’io nell’illusione del mondo,
violenta, raddoppio le vendette
contro di me.
Come dall’oblò d’uno specchio cavo
lucidi i miei sogni e di amnii non lievi,
ma così simili
all’essenza d’ala di libellula,
Nemesi,
slitto dal litorale lastricato
senza che l’alba fasci una speranza.
Madre della morte.
Guerriera altera, senza fortuna
che non sia di canto, qual è il sole
contro cui si drizza
il tuo cuore?
Sono adesso nel punto che sospende
una frontiera sola, scalpitano gli
zoccoli d’arancio e di cinabro
del risveglio, navicelle di velluto
e di fucsie tralucono dopo
le nottiluche, veleggia
l’anima del mondo
e si riespande,
vacilla il vino profondissimo
del calice
marino.
Così vacilla nel profondo
tormentato l’Oriente del mare blando.
Brillano risonanze di martelli,
campane concordano maree, rifonde
la luna bianca il sangue la furia il fango
delle nostre vene.
Tra la superficie e l’abisso
trapassa un’agonia di fiamma,
un’agonia di danza,
un’agonia di forza,
la danza del fosforo
che ingialla in un ovario immenso
il globo.
Madra mattutina, madre della morte.
Speranza vana del travaglio, opale freddo
e lontano come la luna amareggiata.
Quale, quanta la distanza,
fra la vita e la morte che continua
e ci conduce?
Donna morte, madre di morte. Remota, remota
madre ottobrina delle prime brume,
mare delle fini,
non è il luogo la tua bocca
del mio tempo rovesciato?
In quante vesti atroci, io ti ho pensata.
Oh, ma pure, se penso, a come sempre siamo state
su questo golfo sole come ora,
e ora sola com’eri, ti vedo, e
come sono, i tuoi occhi li rivedo
caldi, e un’ambra di mora rosata
sfiora le tue guance,
o spinosissima, o donna dura
di rovo.
Madre mattutina, evoco
le tue labbra d’iride morte, il
simulacro che avanza sulle acque
nude, sulla natura che ancora trema
dei geli della notte.
Madre mattutina, madre della polvere
del latte e dell’argento,
che fai nascere il sole dal cavo
della notte delle onde
infinita,
guardami, con te sulle sponde
di questo vetro
dove seguo un nastro di luce,
luce,
ti inseguo.
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